Livelli di astrazione delle infrastrutture elevati con una virtualizzazione sempre più estesa di server, storage e network. Il tutto governato e orchestrato da uno strato di “intelligenza software” per l’allocazione e la gestione dinamica delle risorse IT, indipendentemente da dove siano fisicamente e virtualmente. Potremmo riassumere così, a grandi linee, il Software Defined Data Center (SDDC). Vediamo allora di capire meglio quali sono le fondamenta tecnologiche ed i livelli funzionali su cui si basa, per identificare quindi gli ambiti di presidio per partner ed aziende utenti.
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Standardizzazione, virtualizzazione, automazione: i pilastri tecnologici del SDDC
Ad offrire un’idea di quali siano i pilastri tecnologici sui quali si basa la strategia architetturale, organizzativa e operativa del SDDC è Richard Fichera, Vice President Principal Analyst serving Infrastructure & Operations Professionals di Forrester, che ne identifica tre:
1) standardizzazione: infrastrutture aperte, standard, integrabili e modulabili “a piacimento” in funzione dei reali workload e delle esigenze di business;
2) virtualizzazione: se quella dei server è già a livelli molto elevati, quella delle risorse storage ha avuto un’accelerata solo negli ultimi anni e quella del network ha ancora molti spazi di crescita; perché un modello di SDDC produca un beneficio reale sia come efficacia per il business sia come efficienza di gestione è necessario estendere a tutti i livelli la virtualizzazione delle risorse per poterle poi aggregare ed allocare dinamicamente in modo molto rapido e semplice;
3) automazione: è uno dei pilastri più critici perché dall’agilità con la quale si riescono ad automatizzare i processi derivano la velocità e la flessibilità con le quali si riescono ad orchestrare tutte le risorse del data center, indipendentemente da dove risiedano sia quelle fisiche sia quelle virtuali.
Il valore di questi pilastri tecnologici si comprende bene riprendendo la prima definizione che la stessa Forrester fece del Software Defined Data Center a cavallo tra il 2012 ed il 2013: «possiamo considerare il SDDC come un “livello di astrazione integrato” grazie al quale un intero data center viene “descritto” come un insieme di strati di software; questi strati presentano i sistemi del data center sotto forma di pool di risorse (fisiche e virtuali) componibili in modo dinamico, automatico e facilmente orchestrabili”.
I livelli funzionali di un’architettura Software Defined Data Center
Se, come abbiamo visto, le risorse server (che diventano lo strato di Software Defined Infrastructure), le risorse storage (che diventano lo strato Software Defined Storage) e quelle di rete (che diventano lo strato Software Defined Network), sono i sistemi che attraverso il software devono poter essere resi disponibili all’utente IT, ai servizi digitali e alle applicazioni in modo dinamico, è evidente che il primissimo livello funzionale di un’architettura SDDC riguarda proprio il “pool di risorse”, ossia la capacità di creazione, l’individuazione, l’importazione, lo spostamento e la gestione di pool di risorse fisiche e virtuali.
Secondo Forrester, gli altri livelli funzionali sono i seguenti:
– Service Design: è quella parte dell’architettura che serve a “specificare” quali sono i workload e che tipo di risorse e carichi di lavoro necessitano, in modo che i sistemi sottostanti si possano modellare di conseguenza (rientrano in questo livello funzionale tutte le tematiche di GUI – Graphical User Interface ed API – Application Programming Interface, Service Catalogue);
– Deployment/Runtime: in questo caso si fa riferimento a tutte le funzionalità che consentono di mettere in pratica l’allocamento dinamico delle risorse, compresi gli interventi (ed i processi automatici) necessari a modificare i carichi di lavoro ove necessario (per esempio perché una determinata applicazione o servizio necessita di particolari risorse aggiuntive in un determinato momento).
– Enterprise management gateway: in questo caso ci si riferisce al livello funzionale attraverso il quale poter mostrare, monitorare e gestire tutti gli strati tecnologici prendendo le dovute informazioni da tutti gli strati software disponibili, quindi anche da soluzioni di enterprise e data center management esistenti (anche in questo caso, dal punto di vista tecnologico, il ruolo delle API diventa di fondamentale importanza.
Cosa devono fare i partner e le aziende utenti
La comprensione degli strati tecnologici e dei livelli funzionali su cui si basa un modello di SDDC sono certamente i primi passi da compiere nell’evoluzione dei data center aziendali, una condizione non più procrastinabile di fronte a modelli di business ormai fortemente dipendenti dai servizi digitali (sia nei processi interni sia nella proposta di prodotti, soluzioni e servizi al mercato). Tuttavia, dalle analisi di Forrester si deducono le linee guida per gli operatori di canale (soprattutto per i partner che si occupano di trasformazione, modernizzazione, virtualizzazione dei data center, anche verso modelli di hybrid cloud), nonché per le aziende utenti. Linee guida che possono essere riassunte nell’identificazione di quattro ambiti di intervento necessari:
1) assessment delle applicazioni e degli ambienti che necessitano di risorse on-demand: potrebbe sembrare banale ma di fatto non lo è mai, quella di definire un percorso evolutivo che parta da un corretto assessment iniziale è la regola primaria che non andrebbe mai sottovalutata. In linea di massima, il SDDC non rappresenta un semplice tool di orchestrazione degli ambienti virtuali ma rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma non solo nella gestione ma anche nella modellazione stessa di un data center che tocca gli aspetti più tradizionali della governance infrastrutturale salendo via via fino alla workload orchestration e alla business automation. Se non si hanno chiari i requirements delle risorse (fisiche e virtuali) di ognuno di questi livelli il modello risulta fallimentare e anche la scelta più idonea delle tecnologie di supporto diventa complessa;
2) focalizzare l’attenzione sul ciclo di vita del servizio: una raccomandazione che assume particolare valore oggi che all’orizzonte vanno definendosi modelli di data center sempre più incentrati sul cloud ibrido dove il SDDC diventa l’elemento attraverso il quale l’It riesce concretamente ad erogare servizi in modo dinamico e flessibile; in quest’ottica, diventa fondamentale saper governare (anche attraverso gli opportuni automatismi) tutto il ciclo di vita dei servizi digitali, basando tale gestione su vere e proprie policy che vanno dalla regolamentazione e controllo degli accessi, fino alle regole di procurement, deployment, livelli e modalità di utilizzo delle risorse, ecc.
3) considerare il SDDC anche all’interno dei piani di software life cycle management: i pool di risorse server, storage e network devono potersi configurare ed integrare, come abbiamo visto, a seconda delle reali necessità applicative e dei workload che richiedono tali risorse per il loro funzionamento. E allora perché non inserire la vista sulle applicazioni e le loro prestazioni all’interno del modello SDDC? Il risultato è una più efficace gestione delle risorse del data center e una più corretta distribuzione delle risorse a sostegno di particolari cicli dello sviluppo software, magari per effettuare test più efficaci ed evitare rilasci di scarsa qualità.
4) unire mondo fisico e virtuale non dimenticando il Dcim – data center infrastructure management: nell’ultimo decennio le soluzioni di gestione degli asset fisici del data center e quelle di Facility Management si sono sempre più integrate all’interno di piattaforme Dcim, dove sono spesso confluite anche funzionalità per la gestione delle infrastrutture virtuali. Nell’ottica di un corretto ed ottimale enterprise management gateway, questi sistemi diventano fondamentali perché forniscono all’architettura di SDDC tutte le informazioni per una più estesa e chiara gestione dell’intero data center.