Il 4 luglio 1984 per me è stata una giornata importante. In quel giorno mia sorella maggiore si sposava e io, come il resto della famiglia, ero emotivamente coinvolto in quell’opera, a maggior ragione perché si trattava della prima figlia che arrivava al matrimonio. Non volevo parlarvi di una questione così privata ma di un evento che nello stesso giorno si è verificato e che ha fatto sì che quella data sia rimasta ancor di più impressa nella mia memoria. L’evento ha coinvolto in realtà l’intera città in cui all’epoca vivevo e se chiedete a un qualsiasi napoletano cosa sia accaduto il 4 Luglio del 1984 quasi sicuramente vi saprà rispondere. In quel giorno, infatti, a Napoli arrivò una persona che da allora fece spesso capolino all’interno delle cronache sportive, e non solo quelle, delle principali testate giornalistiche. Il luogo in cui annunciò il suo arrivo fu lo stadio San Paolo e la persona rispondeva al nome di Diego Armando Maradona, ossia il giocatore con il piede d’oro.
Maradona ha rappresentato certamente un fenomeno calcistico ma ha, sotto certi aspetti, assunto anche un interesse dal punto di vista sociale avendo legato la sua avventura a un’intera città di cui aveva naturalmente incamerato lo spirito. Tanto si è scritto su Diego e tanto si è detto su Maradona. Delle sue doti calcistiche non si può aggiungere molto a quello che già è stato documentato. Un aspetto di cui poco si è parlato ma che ritengo di grande attualità e d’interesse squisitamente tecnico-organizzativo riguarda una caratteristica del calciatore che ha rappresentato sicuramente la peculiarità principale delle sue doti sportive. Maradona era mancino. In effetti anche questa notizia risulta poco interessante. Nell’ultimo film di Paolo Sorrentino (Youth), Harvey Keitel quando il personaggio di Maradona afferma di essere mancino, pronuncia quello che qualsiasi persona pronuncerebbe, vale a dire: “Tutti il mondo lo sa che lei è mancino”. Tutti sanno che con il suo piede sinistro ha scritto sui campi di calcio delle vere e proprie poesie.
Credo che sia negli occhi e nei ricordi di tutti quello che è stata definita l’azione da gol più bella di tutti tempi. Si giocava una partita ai mondiali del 1986 a Città del Messico. Era il 22 giugno e molti l’hanno definita “la partita” di quel mondiale. S’intrecciavano diverse motivazioni nella sfida tra due nazioni che si erano incontrate pochi anni prima su ben altri campi e avevano causato la morte di tante giovani vite. Nel 1982 l’Inghilterra aveva mosso la sua flotta per riappropriarsi delle isole Falkland (gli argentini le chiamavano Malvinas) e la disfatta dell’esercito argentino che ne derivò causò la caduta del regime militare che governava in quegli anni la nazione sudamericana. Torniamo alla partita però quando il campione, dopo che il secondo tempo era iniziato da nove minuti, ricevette una palla dal suo compagno Enrique e con un’azione travolgente che lasciò dietro di lui ben cinque giocatori inglesi più, per ultimo, il portiere Shilton infilò la palla nella rete decretando il momentaneo doppio vantaggio che poi si rilevò determinante per la vittoria finale della sua squadra. Il gol effettivamente fu importante. L’azione, a dir poco, trascinante e le ragioni per definirlo il più bel gol del secolo ci sono tutte. Non è però nel gol in sé che va riconosciuto il valore di quell’azione. L’Argentina vinse il campionato sicuramente anche grazie a quel gol ma la poesia, perché di questo si tratta, va cercata negli undici colpi che accompagnarono il pallone dal centrocampo fino a dentro la porta inglese. Seguire al rallentatore i dribbling che si susseguono e quel piede sinistro che con semplice grazia tocca, scarta, salta e accompagna la palla come se fosse legata da un elastico alla propria gamba e che si fermerà solo nella porta avversaria è come stare a sentire Roberto Benigni che declama i versi del Poeta.
Arriviamo quindi al punto: la poesia del piede sinistro di Maradona. Già da quando batteva i campi impolverati di Villa Fiorito e non calciava un pallone di cuoio, ma semplicemente un ammasso di lacci e stracci, Maradona usava solo il suo piede sinistro per toccare la palla. Si racconta che in uno di quei pomeriggi in cui Dieguito si divertiva con qualche suo amico a palleggiare dando sfoggio già da allora del suo estro calcistico passasse da quelle parti un certo Cornejo che poi diventò il suo primo allenatore e, dopo essere rimasto sorpreso da tanta bravura e maestria di controllo, avesse esclamato qualcosa che assomigliava a questo: “Il tuo destro fa veramente schifo, ma con il tuo sinistro puoi fare cose incredibili”. Forse furono quelle parole a decretare il futuro di quello scugnizzo argentino che diventò il più grande calciatore del secolo. Chissà cosa sarebbe stato di Dieguito se Cornejo avesse pensato, come la maggior parte delle persone “normali”, che risultando il sinistro già buono e non necessitando di miglioramenti sarebbe stato il caso di concentrarsi sul piede destro che, quello si, richiedeva un piano di allenamenti specifici per portarlo, se non a livello di eccellenza, almeno a livelli di decenza. Ebbene Cornejo non fu di quest’avviso e convinse anche Diego che per fare cose eccezionali bisogna investire sulle proprie eccezionalità. Probabilmente se Cornejo avesse agito come gli altri avremmo avuto un ottimo calciatore con un grande sinistro e un discreto tocco di palla con il destro, ma, forse, non avremmo mai avuto quegli undici colpi di poesia che realizzarono il più bel gol del secolo scorso.
È tutta qui la lezione. Investire sui talenti e sulle loro eccezionalità è una scelta strategica a cui non tutti sono in grado di pensare. Spesso si è portati a fare sacrifici per migliorare laddove sembriamo carenti, ma pochi invece pensano che sia molto meglio sfruttare le proprie competenze migliori per arrivare a risultati eccezionali. Sembra quindi che oltre alla buona sorte di riuscire ad avere tra i propri collaboratori un “mancino illuminato” sia più importante, per la fortuna di un’azienda, avere anche dei “manager mancini” che sono quelli che sanno sfruttare in modo proficuo le peculiarità dei propri collaboratori laddove queste presentano caratteristiche uniche e a volte addirittura irripetibili. Il “manager mancino” sa ad esempio sfruttare le caratteristiche di un buon analista che, con un rapido ragionamento, indentifica immediatamente la problematica di un’azienda e propone la soluzione anche se non è in grado di formalizzarla nel modo migliore (rispettando tutte le regole per la compilazione di un bell’allegato tecnico). Un manager mancino in questo caso cercherà di trovare la soluzione ottimale per sfruttare al massimo l’inventiva e l’intelligenza del tecnico creandogli il miglior supporto, eventualmente investendo su altre risorse, per tradurre la sua genialità in un documento da presentare al cliente. Solo così quell’azienda potrà un giorno essere in grado di creare una nuova poesia. Magari fatta di undici tocchi come quelli del piede sinistro di Maradona.