Solo da poco le aziende italiane hanno cominciato a valutare in modo scientifico i propri fornitori e al momento usano ancora metodologie troppo eterogenee. Eppure, un sistema più omogeneo darebbe vantaggi.
È giunto a queste conclusioni un progetto di ricerca dell’Università Tor Vergata di Roma, che getta un’inedita luce sul misconosciuto universo del “vendor rating”.
Si chiama, appunto, “Il vendor rating in Italia: stato dell’arte e modelli operativi” e si è concluso qualche giorno fa, con la collaborazione di Anie Confindustria, Enel, Terna, Avcp, KPMG, Procout e Reply.
Oltre a narrare lo stato dell’arte del vendor rating, la ricerca propone anche un modello che giudica più vantaggioso rispetto a quelli finora adottati.
Per cominciare, i ricercatori hanno mandato un questionario a 150 aziende, ma solo in 53 hanno risposto. Di queste, sono 38 le aziende che utilizzano il vendor rating (e nel 44 per cento dei casi hanno cominciato negli ultimi cinque anni). Nove hanno detto di non avere un sistema di vendor rating. Altre sei ne stanno pianificando uno in questa fase, invece.
A usarlo sono in particolare le grandi aziende; in maggiore misura quelle del comparto delle telecomunicazioni. È soprattutto la Direzioni Acquisti a definire le metodologie di valutazione.
Secondo la ricerca, le aziende valutano maggiormente la “qualità tecnica” di un’offerta (service level agreement, tempi di consegna, ritorni dal campo…) e quella commerciale (iter d’acquisto pre e post contrattuale). Più trascurata quella amministrativa (riguardante il processo di fatturazione).
In genere i monitoraggi sui fornitori sono semestrali: nella maggior parte dei casi le aziende comunicano loro le metodologie adottate e anche i risultati finali. Da questo derivano un’azione di “miglioramento o correttiva” della prestazione e interventi sull’albo del fornitore o introduzione, nei contratti, di clausole bonus/malus legate ai risultati.
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I quattro principi di chi fa vendor rating
Sono quattro i principi base con cui le aziende fanno vendor rating, in Italia. Visto che è un’attività costosa, in genere le imprese italiane:
- scelgono in modo ponderato i comparti da sottoporre a monitoraggio (privilegiando quelli più delicati);
- sono trasparenti nei confronti dei fornitori;
- definiscono gli impatti del vendor rating in modo preventivo
- identificano chiaramente chi ha la responsabilità operativa delle varie fasi del processo.
Le metodologie adottate nel nostro Paese sono però molto eterogenee, sia per modelli di riferimento sia per logiche di utilizzo dei risultati del vendor rating.
Un modello omogeneo per dare un punteggio a ciascun fornitore
Partendo da qui, gli autori della ricerca provano a proporre un modello omogeneo di vendor rating, che arrivi a dare un punteggio globale per ciascun fornitore. Un punteggio, cioè, che apprezzi le prestazioni del fornitore nella loro globalità.
«Può essere utile per accertare i reali punti di forza e debolezza dei fornitori, stimolarne la competizione, e individuare partner strategici con i quali sperimentare per esempio nuove iniziative e tecnologie», si legge nella ricerca.
«I fornitori sono spinti a migliorare le proprie prestazioni conoscendo i parametri con i quali verranno valutati nell’esecuzione del loro contratto. Per contro, risultati non positivi di vendor rating possono avere impatto sia sul piano contrattuale sia sul piano gestionale, per esempio sotto forma di sospensione per un periodo dall’albo fornitori», spiega Maria Antonietta Portaluri, Direttore Generale di Confindustria Anie, federazione che rappresenta le imprese italiane elettrotecniche ed elettroniche.
«È opportuno però comunicare con trasparenza i criteri di valutazione ai propri fornitori, solo così li si spingerà a lavorare meglio e si aumenterà la competitività dell’intero sistema», suggerisce Portaluri. «Il vero vantaggio della metodologia da noi proposta è quello di aver identificato logiche di valutazione comuni».
L’albero di valutazione
Nello specifico, la ricerca ha identificato un “albero” di valutazione che può essere applicato a tutte le aziende indipendentemente dalle dimensioni o dal settore di riferimento.
Utilizza i tre parametri classici: qualità tecnica della fornitura, commerciale e amministrativa. «A seconda della tipologia di azienda, e quindi della tipologia di beni e servizi acquistati sul mercato, si potrà enfatizzare uno dei tre parametri considerati», dice Portaluri.
«Le utility che operano in settori strategici come l’energia o i trasporti, così come le aziende private ad altro valore tecnologico e ad alto tasso di innovazione enfatizzeranno nei propri sistemi la qualità tecnica che spesso si declina anche come livello di sicurezza e impatto ambientale e sociale».
La valutazione dei tre livelli di qualità del vendor è frutto di numerosi indicatori, in un modello molto articolato, tra cui pesano – tra le altre cose – anche le collaborazioni con istituti di ricerca, la frequenza di lancio di nuovi prodotti, il numero di brevetti detenuti, la capacità di innovare a costi contenuti, l’attenzione alle questioni della sicurezza, la competitività commerciale dell’azienda, ma anche la sua sostenibilità ambientale e sociale.
Il nodo del costo di adozione
L’altra faccia della medaglia, di un sistema di vendor rating, è sempre il costo di adozione. «I costi di un sistema di vendor rating efficiente sono legati a due elementi», conferma Portaluri. «Da un lato c’è il costo del personale dedicato e della sua formazione, principalmente nell’ambito della Direzione Acquisti. Dall’altro c’è il costo della creazione, manutenzione ed eventuale implementazione dei sistemi informativi a supporto del vendor rating, che permettono la raccolta dei dati delle performance, l’elaborazione dei dati raccolti, l’emissione della reportistica e l’attuazione di provvedimenti conseguenti al monitoraggio. Nella pluralità dei casi, però, i vantaggi ottenuti dalle aziende – nel migliorare le prestazioni dei propri fornitori – sono superiori ai costi di adozione e gestione».