Analisi

Finanziare la crescita di un’azienda tra Ipo e private equity

Due canali a cui il Demand Generation Lab 2022, l’evento dedicato al Digital Marketing per il settore B2B organizzato da Digital360, ha voluto dedicare un approfondimento speciale guidato dal Presidente di Digital360, Andrea Rangone

Pubblicato il 24 Mag 2022

financial-3207895_1920

Mai come in questi ultimi anni i processi di trasformazione hanno subito una accelerazione. Alle radici, diversi driver, ma sicuramente in questo momento storico, il driver principale è la trasformazione digitale che sta ridisegnando i processi delle aziende digitalizzando tutta la filiera, ma sta modificando anche i modelli di business, i confini stessi del settore, le regole del gioco della competizione. In uno scenario di trasformazione come questo, anche gli strumenti e le strategie da mettere in campo per sostenere la crescita di un’azienda sono cambiati radicalmente. Servono piani d’azione resilienti, che si muovono su binari completamente nuovi. 

Uno di questi riguarda proprio le strategie e i meccanismi in grado di finanziare la crescita del business. Da un lato, abbiamo la quotazione, meglio conosciuta come IPO (acronimo di Initial Public Offering) con cui si intende un’offerta al pubblico dei titoli di una società che intende quotarsi per la prima volta su un mercato regolamentato; e dall’altro, quella che viene definita private equity mediante la quale un’entità (generalmente un investitore istituzionale) apporta nuovi capitali, e dunque finanzia, una società target con l’acquisto di azioni e/o sottoscrivendo azioni di nuova emissione apportando nuovi capitali all’interno dell’obiettivo.

Due canali a cui il Demand Generation Lab 2022, il più grande evento gratuito dedicato al Digital Marketing per il settore B2B organizzato da Digital360, ha voluto dedicare un approfondimento speciale guidato dal Presidente di Digital360, Andrea Rangone. 

“In un momento in cui i modelli di business sono al centro di una trasformazione senza pari – osserva Rangone – la differenza spesso la fanno gli imprenditori che più riescono a cogliere le opportunità e a cavalcare l’onda, dimostrando in campo tanta voglia e coraggio di crescere. Al di là del B2C, dove questo il digitale è tangibile già da tanti anni, ora inizia a farsi sentire anche nel B2B, in ambiti più tradizionali”. 

“Nelle vesti di imprenditore, – continua Rangone – sicuramente abbiamo cercato nel nostro piccolo di giocare questa partita e capire come le trasformazioni in atto cambiassero profondamente il mercato e la posta in gioco. Siamo nati nel 2010, spinti dall’accelerazione sulla crescita (acquisitiva e organica) e per finanziarla abbiamo dovuto affrontare proprio questo tema”. 

Qual è la logica di un fondo di private equity e perché può essere interessante affidarsi a questa opportunità per finanziare la crescita di una azienda? In quali casi ha senso fare questa scelta e quali sono i criteri minimi di accesso?

Innanzitutto, c’è da fare una precisione: “non tutti i fondi di private equity sono uguali; gli obiettivi variano da realtà a realtà” spiega Carlo Privitera, Partner at Kyma Investment Partners SGR, fondo di private equity italiano dedicato alle PMI e con focus sulla trasformazione digitale attiva (investe in aziende di tecnologia che supportano la digital transformation) e passiva (investe in aziende tradizionali con possibilità di crescita ulteriore grazie al digitale).  

Come sottolinea Privitera, Kyma opera nel segmento “growth” e quindi, sposa progetti imprenditoriali che credono nella crescita esponenziale, in cui c’è la volontà di rimanere attori principali (non appoggia realtà che hanno intenzione di fare una exit completa da parte del business); un secondo filtro riguarda il fatto che indicativamente almeno il 50% del capitale investito è destinato al finanziamento della crescita e non all’acquisizione. 

Una terza variabile importante è il concetto di ownership: nei fondi di growth mediamente i fondi di private equity chiedono una partecipazione di maggioranza al capitale, e quindi una posizione di almeno il 50% o comunque un processo di governance per cui il fondo abbia una posizione dominante nelle scelte strategiche. 

Solitamente l’imprenditore trova benefici in una scelta di private equity growth perché ha bisogno di risorse finanziarie per alimentare progetti che siano di M&A, crescita internazionale, sviluppo prodotti ecc., vuole mantenere il controllo e vede nell’upside (risultato dell’azienda nei prossimi 5 anni) il vero grande beneficio. Lavorando su questo processo di crescita, la loro quota anche se di minoranza alla fine del percorso di 5 anni varrà di più della quota da cedere a questo passaggio.

Ma come può l’imprenditore partecipare alla co-creazione di valore? 

Ci sono due processi che si gestiscono durante la fase di acquisizione: un processo di governance dove l’imprenditore mantiene deleghe, responsabilità importanti e capacità decisionale sul business; lato exit l’obiettivo è che durante il progetto il valore dell’azienda raddoppi se non triplichi quindi la sua quota parte avrà un valore sostanzialmente diverso alla fine del progetto.

“Noi comunque – evidenzia Privitera – mettiamo in pista due piani di incentivazione: per l’imprenditore e per il top management dell’azienda che questo imprenditore gestisce dove la prima parte si chiama sweet equity (possibilità di avere un earn out potenziato all’exit) mentre per i manager il MIP dove una parte dei ritorni della potenziale exit vengono segregati per i manager e ad essi viene la possibilità di avere accesso ai ritorni ed essere incentivati per il risultato finale dell’operazione.

“Cerchiamo realtà tra gli 1 e i 3-4 milioni di EBTDA, tra i 20 e i 50 milioni di fatturato in funzione dei multipli. C’è flessibilità nei confronti dei numeri, nel momento in cui i progetti sono interessanti: in questo caso, ragioniamo su EBTDA bassi ma con programmi di aggregazione importanti per arrivare a 2-3 milioni di EBTDA. Pensiamo di fare 7-8 investimenti e investire indicativamente circa 200 milioni” aggiunge Privitera.

Certo, sul mercato ci sono fondi di dimensioni e di natura sostanzialmente diversi. Se lavoriamo in tecnologia e parliamo di venture capital, ci sono fondi che fanno seed investment dove non c’è fatturato, l’EBTDA è negativo e si finanzia l’idea. C’è anche questo nel mondo della finanza alternativa che va a sostenere realtà di piccolissime dimensioni o all’inizio del loro percorso. È fondamentale capire dove si è e qual è il proprio progetto. Il progetto deve essere credibile e sostenibile, e l’uso dei soldi deve avere un senso logico nei confronti del progetto che viene messo in pista.

Di riflesso, qual è la logica della IPO e quali sono i criteri minimi di accesso?

A parlarne è Kevin Tempestini, CEO & Founder di KT&Partners, società di consulenza specializzata nell’aiutare le PMI a finanziare i propri progetti di sviluppo. Uno dei due business che la caratterizzano, è proprio quello identificato come “investment banking” in cui rientrano progetti di IPO, per cui la società accompagna le società in Borsa e si occupa del management aquisition, l’80% dei quali riguardano le società quotate. Un team assiste le PMI nel percorso di sostenibilità attraverso rating e bilanci. 

La quotazione permette ad una famiglia di imprenditori di fare una raccolta di liquidità cedendo capitale, anche parzialmente vendendo azioni loro, per finanziare un piano di sviluppo. Il segreto sta nello use of proceeds o dichiarazione sull’uso dei proventi, ovvero un breve riepilogo che rivela come una società sta pianificando di spendere il capitale ottenuto dagli investitori.

Si apre un dialogo con un numero di consulenti abbastanza elevato e che porta alla quotazione che si caratterizza per il fatto che l’imprenditore non ha nessun tipo di cambiamento di governance. In questo caso si hanno una serie di investitori di minoranza, e attraverso questa si ha un numero di azionisti ma l’invasività è piuttosto limitata. Il pallino della gestione rimane completamente all’imprenditore. 

I vantaggi della quotazione rispetto al rimanere privati sono la visibilità, la motivazione del team e del management esistente (programmi di stock option in azioni quotate), come la capacità di attirare diverse professionalità. Come per altri processi di apertura di capitale, l’azienda passa attraverso un processo di solidificazione, rafforzamento del back bone amministrativo, e alla fine tutti questi elementi spesso contribuiscono alla creazione di una performance di successo. Nel B2B vale soprattutto per le aziende che lavorano con grandi partner e clienti internazionali dove lo status di società quotata sicuramente rafforza il posizionamento aziendale. 

“Investiamo in realtà con 1 milione di EBTDA in funzione dei ritorni, sul fatturato dai 5 milioni in su. Ci capita di incontrare imprenditori che si aggregano per quotarsi ed avere una massa critica. Questi sono sicuramente di buon auspicio. Ma la dimensione non è l’unico elemento che conta. Ci sono aziende grandi con un business che non interessa. Facciamo uno studio di fattibilità sull’operazione di quotazione. Magari imprese piccole con imprenditore con una forte visione alla fine sono spesso aziende che finiscono per fare molto bene, spesso aziende tech” spiega Tempestini.

Cosa sta succedendo in Italia nel segmento private equity?  

L’Italia da un punto di vista di strumenti finanziari a disposizione delle PMI in particolare quelle tecnologiche presentava limiti forti e gap importanti rispetto ai paesi più avanzati del mondo. Questo scenario è cambiato in maniera importante negli ultimi anni. Ma in che senso? 

“In termini di private equity – dichiara Privitera – il gap c’è stato ed è ancora evidente nei confronti degli altri mercati. Nord Europa, Inghilterra, Francia hanno circa lo 0,7% di GDP investito da fondi di private equity; l’Italia oscilla tra lo 0,2 e lo 0,3%, quindi è fra il 30 e il 40% della media europea. Se poi si considerano USA e Cina, i numeri sono di un ordine di grandezza veramente inferiore.  

C’è sia un substrato di player nel mondo italiano sia una mentalità nell’accesso alla finanza tramite private equity che sta crescendo adesso. Se aggiungiamo la variabile B2B e tecnologia, la situazione si complica ulteriormente. Fondi destinati a queste realtà nel mondo delle PMI sono pochi. 

Se guardiamo al panorama dei fondi private equity italiani, i più importanti sono catalizzati verso la medio-grandi aziende. Sono fondi che normalmente hanno ticket dai 100 milioni in su. Dall’altra parte stanno sicuramente crescendo i fondi destinati alle piccole aziende e alle tecnologie. 

C’è stato un grandissimo supporto da due istituzioni: dalla Cassa Depositi e Prestiti con il Fondo italiano d’investimento che ha aiutato a nascere fondi di private equity dedicati a PMI e tecnologie così come l’EIF (European Investment Fund) che ha lanciato iniziative importanti a supporto di fondi geografici che aiutassero la digitalizzazione di paesi specifici, e l’Italia è stato un target importante. 

Questo ha portato il mercato grande liquidità per la possibilità di creare nuove realtà volte a sostenere le PMI e la digitalizzazione. Il mercato oggi è molto più aperto, con realtà dedicate a questa e altre variabili interessanti: come l’aspetto della sostenibilità.  In questi fondi, va tenuta in considerazione la variabile della digitalizzazione per la sostenibilità, molto a cuore dei fondi istituzionali. 

L’altra fonte di finanziamento nel nostro mercato è quello dei family office, famiglie italiane con importanti capitali, grandi investitori nel private equity, anch’esse dopo profondo scetticismo degli ultimi anni hanno iniziato ad avere un grandissimo interesse verso il private equity. 

Cosa sta succedendo in Italia nelle IPO? 

Guardando all’ex-AIM, anche nel caso delle IPO una serie di interventi legislativi da una parte e il Parlamento dall’altra, ha creato agevolazioni per gli investitori che investono in PMI italiane, generando una grande liquidità che ha permesso di raggiungere livelli record di quotazioni (30-40 all’anno). Quest’anno si è registrata una frenata ma soprattutto sulle operazioni più grandi. Sulle PMI quotate, invece, il flusso continua. 

Il mercato è ai massimi storici in termini di capacità di assorbire progetti aziendali interessanti. In media, su questo mercato, la raccolta è di 6-8 milioni di euro. Si possono quotare aziende relativamente di piccola dimensione, non ci sono ostacoli se non come si crea valore, il progetto che si ha, ma con più liquidità potrei fare più cose. 

Come si è sviluppato il mercato delle quotazioni documentalmente, si è sviluppato il mercato anche di pre-IPO. Oggi ci sono soggetti che possono permettere di anticipare l’ingresso di liquidità per poi arrivare alla quotazione in un momento più adatto, interagendo da subito sul mercato capitale. 

Il mercato ha subito un’accelerazione negli ultimi due anni, oggi sono circa 180 le società quotate. È un mercato non regolamentato di più facile accesso. Ci sono società che si quotano anche con un EBTDA tra 1 e 2 milioni per una quotazione seria. 

IPO e private equity si parlano in continuazione. Ci sono società che hanno fondi di private equity che poi successivamente si quotano e viceversa ci sono società che si quotano e poi vengono comprate da un fondo. In un percorso imprenditoriale, queste due strade possono essere alternative, ma anche consecutive con ordine inverso. 

L’incontro e gli altri appuntamenti del Demand Generation Lab possono essere rivisti on demand a questo indirizzo

Valuta la qualità di questo articolo

La tua opinione è importante per noi!

Articoli correlati

Articolo 1 di 2