C’era una volta la sharing economy, quella tendenza a far diventare disruptive mercati e ambiti di business stagnanti, grazie alle innovazioni tecnologiche e ai processi del web 2.0. Pensiamo a Airbnb, a Just Eat, a Blablacar ma soprattutto a Uber. Il concetto alla base è lo stesso: utilizzo un dispositivo personale, lo smartphone, per fruire di un servizio a un costo ridotto, a cui prima si poteva accedere solo uscendo di casa o seguendo logiche di consumo tradizionali. Qualche esempio? Rivolgersi all’agenzia per cercare una stanza in affitto temporaneo, ordinare una pizza o un panino direttamente dal locale o al massimo al telefono, attendere il taxi a una colonnina specifica oppure con una chiamata al numero centrale, con un evidente sobbarco di costi e tariffe extra.
Indice degli argomenti
Come funziona Uber
Cosa ha fatto l’economia dello scambio? Semplice: sfruttare il vettore internet per mettere in contatto la domanda con l’offerta, tramite piattaforme che fanno della scalabilità un punto di forza essenziale. Emblema di un simile contesto è proprio Uber, costantemente al centro di rivolte e polemiche da parte di quella che da più parti viene intesa come la lobby dei tassisti. Per quale motivo? Partiamo da una premessa: esistono diversi tipi di Uber, si va da “Uber Black”, che prevede la corsa su una berlina, “Uber Lux”, dove la tratta avviene su un’auto di lusso e “Uber Pop”, il servizio più conosciuto e attivo in Italia fino al 2015, quando il Tribunale di Milano ne ha disposto il blocco per concorrenza sleale. Negli USA c’è anche Uber X, che consente a studenti e disoccupati, in assenza di licenza, di offrire una tipologia di trasporto a prezzi vantaggiosi. Tramite l’app per iOS e Android si attiva la localizzazione e si visualizzano gli autisti nelle vicinanze. Alla chiamata quello più vicino si reca al punto scelto e porta a destinazione l’utente. Il pagamento avviene tramite app, sia con carta di credito/prepagata che PayPal.
Punto 1: la protesta sulle licenze
Il presupposto della protesta è economico: Uber non risponde ad alcun possedimento di licenze e omologazione di mezzo di trasporto. Qualunque auto, seppur catalogata secondo certe metriche, può diventare un mezzo per Uber, così come chiunque abbia la patente può trasformarsi in autista, coordinato da un’app gestionale che fa da backend a quella da scaricare su smartphone e tablet. Certo, bisogna comunque avere una licenza speciale (NCC, “noleggio con conducente”) ma inferiore a quella pagata dai tassisti per il loro brevetto; gente che si ritrova come concorrenti persone che, probabilmente, svolgono tutt’altra professione, dedicando al passaggio privato solo parte della giornata e dei rispettivi ricavi.
Punto 2: la protesta sulle tasse
Qui il secondo punto: dove vanno a finire i guadagni ottenuti via Uber? La compagnia trattiene dal conto corrente del privato il 20% degli introiti ottenuti con la piattaforma. Questi però non emettono fattura e dunque non è chiaro come ci si regoli nei confronti dello Stato. Una matassa a cui la politica italiana è chiamata a rispondere, entro il 2017. Proprio qui sta il punto cruciale della situazione attuale. Nel 2008 i tassisti avevano chiesto un pacchetto di norme per adeguare la concorrenza ai loro oneri; norme che dopo oltre otto anni non sono ancora legge, portando con sé solo una serie di proroghe che, storia recente, vedono nel 31 dicembre 2017 il termine ultimo (l’ennesimo) per adattare il mercato a Uber e Co.
Punto 3: la protesta sulla proroga
Nel concreto, i taxi ufficiali protestano contro un emendamento al Milleproroghe che sposta più in là l’attuazione dei decreti legislativi previsti da una norma del 2016, contro l’esercizio abusivo del servizio taxi e NCC. Quest’ultimo si rifà a un articolo di legge del 1992, nel quale è previsto che, tra una corsa e l’altra, gli autisti a noleggio dovrebbero tornare presso la propria base prima di prendere un nuovo passeggero, mentre oggi girano per la città acchiappando i clienti in attesa di una corsa. Con Uber, i conducenti NCC entrano all’interno di un percorso più ampio, che li fa conoscere a una platea di potenziali clienti molto più vasta. Giustamente i tassisti si sentono sorpassati dall’assenza di leggi che loro stessi devono rispettare mentre gli avventori privati no. È evidente che il legislatore debba fare un passo indietro e due in avanti per recuperare un iter burocratico che appartiene allo scorso millennio, omologando offerte concorrenti a metriche condivise, seppur in quadri applicativi differenti. Non è semplice ma da qualche parte bisogna pur cominciare.