“L’idea di Foodchain nasce nel 2011, durante un viaggio in Australia, da due ‘stimoli’ che mi si sono presentati davanti negli stessi giorni. Da una parte quello era il periodo in cui si iniziava a parlare di bitcoin, una criptovaluta che si basava su una nuova tecnologia, la blockchain. E dall’altra proprio in quei giorni sono entrato in contatto per la prima volta con i prodotti alimentari “italian sounding”: prosciutto cotto che non aveva nulla a che vedere con l’originale, pizze surgelate che secondo quanto riportato sulla confezione avrebbero dovuto essere ‘calabresi’, ma che erano condite con prosciutto cotto e ananas. In quegli anni, inoltre, era scoppiato lo scandalo delle mozzarelle blu che provenivano dalla Germania. Ho così iniziato a chiedermi cosa avessero effettivamente di italiano questi prodotti, e come sarebbe stato possibile tutelare il Made in Italy nel campo dell’agrifood magari proprio grazie alla tecnologia, visto che nella maggior parte dei casi questi prodotti non avevano nemmeno un’etichetta chiara. Così ho iniziato a studiare un modo per utilizzare la blockchain in questo settore, e non in quello delle monete virtuali, sfruttando le caratteristiche di trasparenza e tracciabilità dei registri distribuiti. Sulla base di questa idea si è formato un gruppo di soci accomunati dalla voglia di vivere quest’avventura, e nel 2012 siamo partiti”. A raccontare come nasce l’Idea di Foodchain è Marco Vitale, ceo e founder di questa esperienza, che a distanza di otto anni è diventata un esperimento di successo che ha messo l’innovazione e la tecnologia alla base di un’esperienza oggi protagonista di una crescita esponenziale.
Marco, quali sono state le direttrici su cui avete iniziato a lavorare al progetto Foodchain?
Al centro di tutto c’è stata la volontà di valorizzare la produzione agroalimentare della nostra terra, un’eccellenza su scala mondiale, attorno alla quale purtroppo si generano a volte vere e proprie truffe, ma anche un giro d’affari “parallelo” che penalizza la nostra economia e i consumatori finali. Il giro d’affari della contraffazione alimentare italian sounding causa infatti perdite per 65 miliardi l’anno alla nostra economia, e questo si traduce in minori incassi per lo Stato e in una perdita di posti di lavoro per molte aziende del nostro Paese, messe in difficoltà da una concorrenza selvaggia sui prezzi e dalla presenza sul mercato di prodotti che non hanno le caratteristiche di qualità che dovrebbero avere. Per bloccare questa tendenza, secondo la nostra visione, sarebbe stato fondamentale premiare i comportamenti e le scelte di chi produce rispettando le regole, sia all’estero sia in Italia, prendendo in considerazione tutta la filiera agroalimentare, dal campo alla tavola dei consumatori finali. Questo, ne siamo sempre stati convinti, avrebbe generato – come in effetti sta facendo – una competizione sana tra gli operatori del settore, e avrebbe lasciato emergere una possibilità di scelta nuova per gli utenti: non basata esclusivamente sul packaging o sul prezzo di un prodotto, ma sulle qualità. Quindi sulle informazioni certificate contenute in un’etichetta digitale, che si può consultare inquadrando con lo smartphone un codice sulla confezione.
Questo può voler dire made in Italy non soltanto per le materie prime, ma per tutti gli attori della filiera…
Certo, vuol dire poter essere informati non soltanto sulle materie prime con cui è realizzato un prodotto, ma anche su quelle con cui è confezionato: se voglio premiare il lavoro dei miei connazionali, posso arrivare a sapere anche da dove arrivano i materiali del packaging, e scegliere chi ne utilizza di italiani anche se il costo finale è di poco più alto. Questo ovviamente porterebbe a creare un indotto più importante sempre all’interno del nostro Paese. Per fare un esempio, un chilo di pasta può cosare da pochi decimi di euro a due euro, ma il prodotto più costoso potrebbe dimostrare, al di là delle etichette altisonanti che accomunano anche le merci più scadenti, che durante tutto il processo di produzione non vengono mai utilizzate sostanze chimiche. Spendere pochi euro in più alla fine del mese per la pasta potrebbe non essere per molti un grande problema, soprattutto se questo è essere utile per tutelare la salute con prodotti genuini: diventerebbe un investimento più che una spesa.
Dalla nascita di Foodchain a oggi sono passati otto anni. Il successo è arrivato subito?
No, dire anzi che i primi anni sono stati particolarmente duri, se consideriamo che abbiamo iniziato a fatturare soltanto dalla seconda metà del 2018. Prima di allora abbiamo investito in R&D. Questa partenza attenta allo sviluppo della tecnologia però ci ha portato ad avere oggi una tecnologia che il mercato apprezza. Dal 2018 nei primi due mesi di ogni anno ricaviamo di più di quanto non abbiamo realizzato in tutto l’anno precedente. E’ successo nel 2019 e anche nel 2020, nonostante l’emergenza Coronavirus. Le richieste sono esponenziali, e possiamo contare sul fatto che abbiamo iniziato a studiare e a investire sulla blockchain quando ancora su questo mercato non c’era quasi nessuno. Non voglio dire che mai nessuno dei concorrenti riuscirà a raggiungerci, ma sono sicuro che per un po’ manterremo un vantaggio importante grazie alle competenze che abbiamo accumulato. Oggi spuntano come funghi esperti in certificazione e nell’uso della blockchain, ma sono veramente pochi quelli che hanno una competenza adeguata.
Qual è stato il punto di svolta nel vostro campo?
Dal mio punto di vista ha avuto un ruolo fondamentale in fatto che le nuove generazioni, soprattutto i millennials, abbiano iniziato a spendere e d diventare protagonisti del mercato. Si tratta di ragazzi nati con il digitale e per di più estremamente curiosi. Per loro è naturale utilizzare lo smartphone per informarsi, e le aziende se vogliono conquistarli come clienti devono essere all’altezza delle loro aspettative fornendo informazioni attendibili e ‘sicure’ sui propri prodotti. Grazie alla blockchain ciò che è contenuto in un’etichetta digitale è immutabile, e non conviene inserire dati falsi, che potrebbero essere contestati prima di tutto dalla concorrenza. Questo processo è in grado di mettere in moto una dinamica virtuosa che orienta la concorrenza su standard di qualità alti, e non soltanto sulla logica del prezzo più basso: a vincere è il più bravo, non il più furbo. Questo può contribuire tra l’altro a redistribuire la ricchezza all’interno della supply chain, dove spesso oggi il produttore viene pagato cifre irrisorie anche a fronte di prodotti di alta qualità. La logica della certificazione metterebbe un’arma in più nelle mani di chi produce le materie prime di qualità, che si tratti dei pomodori di Pachino o delle arance di Sicilia, evitando che si paghino i produttori 20 centesimi al chilo per prodotti che poi arrivano sui banchi dei supermercati a costare venti volte tanto.
Questo avvantaggerebbe soltanto i piccoli produttori?
No, genererebbe piuttosto una dinamica per cui chi produce prodotti di altissima qualità vedrebbe riconosciuti i propri ‘meriti’, mentre anche i più grandi, quelli che standardizzano la produzione, risponderebbero all’appello di presidiare questa fetta di mercato con linee ad hoc, anche per non perdere la propria brand reputation. In effetti sta già accadendo, c’è una corsa abbastanza generalizzata al prodotto premium, dove la tecnologia viene utilizzata anche come garanzia interna: le grandi aziende che acquistano e trasformano prodotti devono essere sicure di quello che comprano e avere completa tracciabilità, per poter risalire velocemente la catena quando qualcosa non funziona.
Il ranking Technology pioneers del World Economic Forum ha stilato una classifica di startup evidenziando che sono molte quelle attive nell’utilizzare la tecnologia per migliorare il mondo, dall’accesso al credito alla sostenibilità. Davvero sta aumentando la sensibilità attorno a questi temi, soprattutto grazie all’impegno dei giovani innovatori?
Direi proprio di sì, e la blockchain ne è una prova. Si tratta infatti di una tecnologia open source, non di un brevetto a pagamento. Nasce per essere utile al mondo e generare una serie di nuovi modelli di business. Anche dal nostro punto di vista noi abbiamo prelevato dal web una tecnologia, l’abbiamo elaborata e l’abbiamo resa gratuita attraverso una fondazione. Questo consente di fare in modo che l’aspetto tecnologico di un nuovo progetto sia particolarmente ‘veloce’ da implementare quando si tratta di sviluppare nuove idee, diventando un driver di innovazioni impensabili fino a poco tempo fa. La tecnologia non è più uno scoglio per le buone idee, e le big company non ne sono più gli unici detentori.