Utenti ormai smaliziati nell’IT manifestano l’esigenza di accedere a una quantità di dati sempre più varia e grande, e mai come ora un’azienda moderna deve saper soddisfare tale necessità, eliminando le interruzioni dei servizi, e diventando una ’always-on enterprise’. Non riuscirci significa rischiare parecchio a livello finanziario, perché oggi un downtime può costare a un’organizzazione fino a 16 milioni di dollari l’anno, ben 6 milioni di dollari in più rispetto alla stima del 2014, senza poi contare i danni che l’organizzazione subisce in termini di immagine. Questi dati emergono dall’Availability Report 2016, uno studio che fa il punto sullo stato delle tecnologie e strategie poste a presidio della continuità del business. La ricerca, condotta dalla società di analisi di mercato Vanson Bourne, è stata commissionata da Veeam, vendor di soluzioni di backup a livello globale. Nell’ambito dell’indagine, svolta fra agosto e settembre 2015, sono stati interpellati 1.140 IT decision maker (ITDM) appartenenti ai dipartimenti IT di aziende di 24 nazioni diverse e con un parco addetti di almeno mille dipendenti. In Italia sono state eseguite 50 interviste.
Gap tra realtà e desideri
«L’obiettivo principale della ricerca era comprendere se il concetto di always-on enterprise è sentito dagli IT decision maker» ha detto Albert Zammar, country manager di Veeam Software in Italia, sintetizzando le principali conclusioni del report, e commentandone i risultati sia a livello internazionale, sia riferiti al nostro paese. Da questo punto di vista, evidenzia il sondaggio, a livello internazionale, l’84% degli ITDM intervisati (il 2% in più rispetto al 2014) ammette di accusare un ’availability gap’, ossia un disparità tra l’infrastruttura IT esistente e quella che vorrebbe per soddisfare le esigenze degli utenti. Questa è la realtà, nonostante nel 2015 il numero medio di eventi annuali di downtime imprevisti sia aumentato, arrivando a 15 (contro i 13 del 2014).
Anche la durata dei downtime non pianificati è cresciuta anno su anno, passando da 1,4 ore a 1,9 ore per le applicazioni mission-critical, e da 4 ore a 5,8 ore per le applicazioni non mission-critical. Tutto questo in uno scenario in cui avere un’infrastruttura ad alta disponibilità risulta fondamentale, sottolinea Zammar, perché, con 3,4 miliardi di utenti attualmente connessi e 21 miliardi di dispositivi in rete previsti entro la fine del 2020, riuscire a fornire un accesso 24 ore su 24, 7 giorni su 7, e 365 giorni all’anno a dati e applicazioni diventa un requisito irrinunciabile. Soprattutto, considerando che, rispetto al passato, sta crescendo anche la percentuale di workload considerati mission-critical: oggi oltre il 47% dei workload, quasi la metà, sono classificati mission-critical, e tale percentuale è prevista salire a oltre il 52% nei prossimi due anni.
Occorre modernizzare
Sul downtime delle applicazioni, quasi tutti gli ITDM interpellati (99%) riportano che gli utenti finali stanno chiedendo miglioramenti di qualche tipo. In particolare, essi richiedono soprattutto (63%) la possibilità d’interazione real-time nelle operazioni, ma anche una capacità di accesso globale e ininterrotta (24/7) ai servizi IT (59%). In risposta a queste richieste, pressoché tutti gli ITDM affermano che la propria organizzazione sta modernizzando il data center, investendo o pianificando investimenti a breve, in diverse aree. Quelle più importanti (59%) sono il ripristino rapido (ad esempio di server, applicazioni, macchine virtuali in meno di 15 minuti), e l’eliminazione della possibilità di perdite di dati (57%).
In realtà, nonostante questo quadro in evoluzione, poco meno della metà degli intervistati afferma che la propria organizzazione esegue test di backup su base mensile. Inoltre, tra le aziende che collaudano i backup, solo il 26% ne sottopone a test più del 5%. I danni derivanti dal fatto di non essere una ’always-on enterprise’ vanno, come accennato, anche oltre la ricaduta economica, che annualmente può raggiungere un costo di 16 milioni di dollari: soprattutto si parla di perdita di fiducia dei clienti (68%), di danni al brand aziendale (62%) e di perdita di fiducia dei dipendenti (51%).
Sul raggiungimento del paradigma di impresa always-on continua poi a gravare la pressione esercitata sui reparti IT, da un lato, a ridurre al minimo i costi operativi e, dall’altro, a rafforzare la sicurezza. Due fattori critici che, sottolinea Zammar, in Italia sono riportati dall’80% dei rispondenti alla ricerca. In ogni caso, nel nostro paese, ha dichiarato il country manager di Veeam, molte aziende italiane si sono attivate per incrementare la loro operatività, come emerge dall’Availability Report: il 70% degli intervistati in Italia, tra un campione di aziende di oltre 1000 dipendenti, sta investendo o ha intenzione di investire a breve in soluzioni di data protection e disaster recovery.
Non a caso, proprio sul mercato italiano, Veeam ha realizzato ricavi in crescita del 31% per la commercializzazione delle proprie soluzioni di protezione dei dati, superando la performance globale, che l’ha vista chiudere il 2015 con un fatturato record di 474 milioni di dollari e una crescita dei ricavi del 22% rispetto al 2014.