Mobilità

Perché Uber è stato vietato in Italia

Il tribunale civile di Roma ha imposto alla compagnia statunitense di fermare ogni attività entro il 19 aprile, pena una multa di 10 mila euro per ogni giorno di ritardo

Pubblicato il 12 Apr 2017

Paolo Longo

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Italians do it better si diceva una volta, non riguardo a Uber. La startup che ha sconvolto il delicato panorama della mobilità urbana via taxi stai per diventare un miraggio nel nostro paese anzi, a livello burocratico, lo è già. Con una decisione del tribunale civile di Roma, alla compagnia americana è vietato offrire i propri servizi sul suolo nazionale, vista la necessità di bloccare ogni attività entro il 19 aprile, ovvero al massimo 10 giorni dalla legifera del foro romano, altrimenti dovrà pagare 10 mila euro al giorno, fino a quando non si fermerà. Il motivo? Lo ha spiegato direttamente Alfredo Landi, giudice del caso: “condotta sleale nei confronti dei taxi, visto che gli autisti di Uber non devono mettere in pratica tariffe predeterminate dalle competenti autorità amministrative”.

Ergo, questi possono applicare prezzi inferiori rispetto ai competitor, declinandoli di città in città e a seconda delle esigenze. Viene inoltre contestata l’attività in un campo di norma esclusivo dei taxi, peraltro operando in situazioni di extra-localizzazione non previste dalla legge: un autista NCC (noleggio con conducente) può ottenere l’autorizzazione in Campania e lavorare in Lombardia, senza vincoli.

Uber non è rimasta ovviamente impassibile dinanzi alla decisione, che è sembrata forse troppo anacronistica visti i tempi intrisi di voglia di innovazione e cambiamento: “Siamo allibiti. Faremo ricorso contro questa decisione basata su una legge ormai vecchia e che non rispecchia più quelli che sono i tempi attuali. Lo dobbiamo ai migliaia di autisti professionisti, per consentir loro di continuare a lavorare grazie all’app di Uber. Ma lo dobbiamo anche alle persone, che devono poter scegliere che servizio usare per la loro mobilità”. La strada sembra oramai sbarrata visto che per invertire la rotta, con una classica “inversione a u” servirebbe un intervento diretto del Governo o la tanto attesa modifica della legge del 1992, che dovrebbe permettere l’adeguamento del mercato alle novità emergenti.

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