L’Open source è balzato improvvisamente al centro della scena mediatica, per effetto della storica acquisizione di Red Hat, leader nella distribuzione di soluzioni open dedicate al mondo aziendale, da parte di IBM, per complessivi 34 miliardi di dollari. Una cifra che permette di capire quale importanza abbia ormai assunto questo fenomeno. Ma Open source cos’è? Può essere definito come un software il cui codice sorgente è rilasciato con una licenza che lo rende modificabile o migliorabile da parte di chiunque. Il codice sorgente è la parte del software che i programmatori di computer possono manipolare per modificare il funzionamento di un programma o di un’applicazione aggiungendo funzioni o migliorando parti che non sempre funzionano correttamente.
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Open Source: un po’ di storia
Quel che è certo è che l’Open Source è ormai da un pezzo uscito dalla nicchia degli ambienti universitari e di ricerca per arrivare a un pieno utilizzo nel mondo business. Molta strada è stata fatta, infatti, dagli anni 80, quando l’Open Source iniziò a fare i primi passi grazie al movimento per il software libero capeggiato dal suo portavoce e appassionato fondatore Richard Stallman. Fu lo stesso Stallman a fondare, nel 1983, la Free Software Foundation (FSF), un’organizzazione no-profit per lo sviluppo, la promozione e la divulgazione del software libero in tutte le aree informatiche. Inizialmente, la filosofia che Stallman promuoveva sembrava cozzare contro la diffusione in ambito aziendale del software libero, poiché il termine free veniva associato a prodotti sì gratuiti, ma di bassa qualità. Da allora l’Open Source si è arricchito del contributo di migliaia di sviluppatori, ma anche di tantissime aziende, un tempo nemiche acerrime dell’Open Source (il caso più clamoroso è quello di Microsoft)
Al punto che sempre più aziende ormai valutano l’ambiente open come alternativa a quelli proprietari per appoggiarvi le proprie applicazioni strategiche. E i loro fornitori, i reseller e i system integrator, hanno da tempo preso confidenza con l’Open Source, per il quale chiedono supporto ai propri distributori, ormai parte integrante nella catena di trasferimento di valore aggiunto ai clienti.
Open Source: i perchè del successo
Tanto che oggi si può dire che il modello “open” nello sviluppo e distribuzione di software siasenza dubbio il più diffuso oggi, tanto da essere utilizzato per creare applicazioni, prodotti e servizi di ogni genere e offre centinaia di migliaia di componenti di codice che possono accelerare lo sviluppo e tagliare i budget di migliaia o addirittura milioni di USD.
Le aziende IT con il più alto tasso di crescita sono nate e si sono sviluppate sul modello “open”, da Facebook a Twitter ad Amazon e Google. Persino Apple, la società più preziosa del mondo IT, ha sviluppato i suoi sistemi operativi partendo da modelli “open” (Mac OS X nasce da uno sviluppo del sistema operativo Darwin, proveniente dalla famiglia di sistemi operativi “open” BSD).
l vantaggi economici del modello “open” sono evidenti. Se si considera che il costo per riga di codice (Line Of Code – LOC) oscilla oggi tra i 10 ed i 20 USD e che mediamente ci sono 50.000 LOC in ogni componente software, utilizzando codice sviluppato e distribuito con il modello “open” si potrebbe giungere ad un risparmio sino ad un milione di USD per progetto.
Guglielmo Troiano, Senior Legal Consultant di P4I – Partners4Innovation
Ma che cosa si intende per modello “open”? Quali sono le questioni da approfondire per poter sfruttare questo modello e risparmiare sullo sviluppo? Si può modificare il software “open” e se si a quali condizioni? Come spiega l’analisi di Guglielmo Troiano, Senior Legal Consultant di P4I – Partners4Innovation, al consumatore finale che utilizza il software “as is” poco o nulla importa di queste tematiche. Per l’utente finale è importante che il software riesca a soddisfare la generica esigenza per il quale è stato acquisito (per es. Word o LibreOffice per word processing). Ma che accade se l’utente finale non è soddisfatto dalle funzioni che offre il software ed è un soggetto capace di poterlo modificare? Non è rilevante che questo soggetto sia un singolo individuo o un’azienda (per la PA occorre fare un discorso a parte), potrebbe essere in tutti i casi interessato a modificare il software per adattarlo alle proprie esigenze.
Generalmente il software può essere utilizzato solo così com’è, non si può modificare. Si possiede il file eseguibile per installarlo (EXE, DMG ecc.) e si hanno stringenti limiti di utilizzo, oltre al fatto che il “codice sorgente” non è disponibile.
Open source cos’è : le caratteristiche tecniche
Nel modello “open”, viceversa, sussistono entrambe le due condizioni (codice disponibile e possibilità di modificarlo) ma uno degli aspetti più importanti è il concetto di copyleft. Solitamente si definiscono due livelli di copyleft nel software “open”: forte e debole. Se il copyleft è forte, tutte le successive opere derivate del software devono conservare la stessa licenza del software originario, quindi le stesse condizioni (concetto della c.d. “ereditarietà”). Se invece il copyleft è debole questo vincolo non sussiste. L’archetipo di licenza con copyleft forte è la licenza GNU/GPL (ideata da Richard M. Stallman, un informatico, e perfezionata da Eben Moglen, un professore di legge e avvocato). Questa licenza è caratterizzata dall’obbligo di rilasciare (ripubblicare) il codice eventualmente modificato con la stessa licenza. In altre parole, tutto il codice sviluppato dev’essere a sua volta coperto con la stessa licenza. La GPL è chiara su questo punto “I programmi coperti da GPL non possono essere incorporati all’interno di programmi non liberi”.
Open Source cos’è: alcuni esempi
Un esempio di licenza con copyleft debole è Apache utilizzata, per esempio, per il sistema operativo per smartphone più diffuso al Mondo, Android di Google. Apache si può considerare una licenza “open” ma le sue condizioni concedono a chiunque la libertà nell’utilizzo del codice al punto che consente anche la libertà di utilizzare lo stesso codice per sviluppare software che possa a sua volta essere rilasciato con licenza “proprietaria”, lasciando impregiudicate solo le parti sottoposte espressamente ad una licenza di diverso tipo.
Sebbene l’utilizzo di una licenza con copyleft debole (anche detta “permissiva”) come l’Apache è il modo migliore per sostenere una piattaforma di sviluppo software complessa come Android, molti, Free Software Foundation compresa, sostengono che l’uso delle licenze con copyleft debole sacrifichino l’occasione per incoraggiare una maggiore trasparenza nel vasto mercato del software. Infatti, se Android fosse stato distribuito con licenza GPL, tutti avrebbero dovuto condividere i propri miglioramenti sulla piattaforma di sviluppo, il che avrebbe potuto teoricamente portare alla condivisione diffusa di codice e ad un’accelerazione più rapida dello sviluppo del sistema operativo.
Quindi la licenza determina il modello di business sul software?
Si. Tornando ancora su Android, la licenza Apache, con ogni probabilità, è stata scelta da Google sulla base di logiche commerciali e non per sensibilità verso i diritti degli utenti o, tanto meno, della comunità degli sviluppatori indipendenti. Il modello che Google ha scelto per Android è senz’altro “open” ma poco orientato al mantenimento perpetuo di tale apertura. Chiunque potrebbe infatti appropriarsi di tutte le componenti di Android rilasciate con licenza Apache (la maggior parte) e “chiuderle” in una licenza proprietaria. Samsung, per esempio, sviluppa un suo sistema Android ottimizzato per i suoi dispositivi e lo rilascia con una sua licenza (proprietaria).
Bisogna tenere presente che il software non è un’entità statica e monolitica, bensì un insieme fittissimo di altri software, se per software intendiamo una serie di istruzioni impartite al computer. Per cui, è possibile che nel modello “a cascata” di ridistribuzione, grazie alla disponibilità del codice sorgente completo e alla possibilità di modifica garantite dalla licenza, qualche sviluppatore voglia scorporare il pacchetto software e rielaborarne solo una parte, oppure decida di fare interagire un software di derivazione “open” con un software proprietario.
Open Source: perchè può convenire?
Quanto detto sinora è utile per comprendere cosa accade quando si decide di voler acquisire software “open” ed eventualmente modificarlo. La prima domanda da porsi è: che cosa ci devo fare con questo software?
Se il suo utilizzo non prevede una distribuzione al pubblico non ci si deve preoccupare di molto perché la licenza “open”, a prescindere dal livello di copyleft forte o debole, consente di modificare il software come si ritiene necessario. Per esempio si acquisisce un software “open” ERP che si utilizzerà solo internamente nella propria struttura aziendale.
Ma se è prevista una distribuzione al pubblico, perché il software “open” è “embedded” in un prodotto o servizio venduto sul mercato? Allora certamente occorre verificare ex ante il livello di copyleft della licenza “open” (se forte o debole) quindi occorre verificare i contenuti di tutte le licenze “inbound” (in ingresso) per capire che cosa accadrà quando, a modifiche effettuate, si deciderà di distribuire il software con le relative licenze “outbound” (in uscita).
La questione è nella pratica anche più complicata perché quasi mai il software è sviluppato direttamente da un’azienda ma viene commissionato in outsourcing e può accadere che il fornitore/sviluppatore inserisca delle parti di codice le cui condizioni sono incompatibili con la licenza outbound decisa dal committente.
Le condizioni di licenza “inbound” possono richiedere che il software sia sotto una determinata licenza o categoria di licenze (outbound), oppure possono addirittura escludere la licenziabilità del software sotto una o più licenze incompatibili.
L’azienda committente, soprattutto in relazione alle dimensioni di un progetto di sviluppo di un software destinato ad un proprio prodotto o servizio venduto/distribuito sul mercato, non può sottovalutare queste implicazioni perché potrebbe incorrere nel rischio di violare le condizioni della (o delle) licenza/e inbound che, in altre parole, vuol dire violare i diritti d’autore ed incorrere in illeciti perseguibili anche con sanzioni penali.
Open Source: il caso Red Hat
Oggi si parla di Software Open Source di livello Enterprise quando a tutti i vantaggi offerti dalle soluzioni Open Source, (innovazione, no vendor lock-in, standardizzazione, ecc) si aggiungono servizi a “valore aggiunto” da parte di società come Red Hat che le arricchiscono con una serie di attività ingegneristiche, di supporto, di certificazione, di formazione e consulenza che sono indispensabili all’adozione di queste tecnologie innovative in ambiti “mission-critical”. Pioniera di questa attività è, senza dubbio, Red Hat: sono infatti passati 5 lustri da quando Red Hat si è presentata al mercato come pioniere nel campo dell’Open Source, per convinzione, impegno, modello di business, struttura aziendale. Il lancio della prima release di Linux, nell’Ottobre del 1994, chiamata Halloween, segnò un cambiamento profondo perché inaugurò un ciclo, un modo nuovo di costruire software e di metterlo a disposizione di tutti. Da quel primo Linux, ogni sei mesi fu lanciata una nuova versione: erano i tempi in cui si sperimentavano i modelli di scrittura e rilascio del software, per trovare il più vincente. Fino ad arrivare alla release del 29 Maggio 2002, Red Hat Enterprise Linux 2.1, che segnò un traguardo importante come prima versione Enterprise, con ciclo di vita sostenibile per permettere ai partner ISV e OEM d certificare le loro soluzioni su Red Hat. Oggi le soluzioni proposte da Red Hat vanno ben oltre la sola piattaforma Linux (che pure resta parte importante del business) , quanto piuttosto cercano di supportare la svolta delle aziende in un’ottica hybrid cloud, anche attraverso una serie di partnership tecnologiche che sono state strette con altre aziende del mondo ICT (una di queste era proprio IBM). Un approccio che è perfettamente in linea con le nuove esigenze delle aziende che operano in un contesto globalizzato e complesso.
Open Source: cosa cambia con l’operazione IBM-Red Hat
L’acquisizione di Red Hat da parte di IBM rappresenta un momento importante per la storia dell’Open Source, non fosse per altro che per la cifra messa a disposizione da Big Blue per l’operazione. Come racconta in questa intervista Alessandro La Volpe, Vice President di IBM Cloud Italia, l’obiettivo strategico dell’intera operazione è quello di presidiare al meglio il mercato dell’Hybrid Cloud, dando vita al primo player mondiale del settore. IBM promette di non intaccare gli equilibri dell’azienda Open Source, assicurando anzi di non volerne limitare autonomia e libertà di azione sul mercato.
Open Source: il modello Suse
Molto simile nella proposizione e nella storia a Red Hat è Suse, che anch’essa ha alle spalle oltre 20 anni di attività nel business Open Source. Anch’essa nel 2018 è stata oggetto di un’acquisizione da parte del fondo svedese EQT Partners, che ha sborsato per l’operazione ben 2,535 miliardi di dollari. Tra gli annunci più recenti di Suse ci sono SUSE Linux Enterprise 15, SUSE Manager 3.2 e SUSE Linux Enterprise High Performance Computing 15. Il pezzo forte è, naturalmente, SUSE Linux Enterprise 15 (che arriva direttamente dopo la versione 12) è concepito come un sistema operativo modulare moderno che aiuta a semplificare l’IT multimodale, rende l’infrastruttura IT tradizionale maggiormente efficiente e fornisce agli sviluppatori una piattaforma di riferimento. L’obiettivo è rendere possibile effettuare facilmente il deployment e la transizione di workload business-critical su ambienti on-premise e cloud pubblici.